federico guerrini
È noto che ormai la parola “startup” è una buzzword, un tormentone che va bene per tutto, tanto da essere quasi svuotata di significato. In effetti, fin dei conti – benché il termine sia spesso applicato a società che creano o distribuiscono prodotti via Internet – “startup” non vuol dire altro che “impresa”. Un’impresa che deve ancora consolidarsi, in fase di avviamento. Negli ultimi tempi, accanto a quello per le startup tecnologiche, si è acceso l’interesse anche per un altro tipo di imprese: quelle del Welfare.
Ci sono fondi che si sono specializzati nell’investimento in startup a sfondo sociale. ” Le imprese a finalità sociale ed ambientale – ha dichiarato di recente Luciano Balbo, ideatore di Oltre Venture, fondo da dieci milioni di euro – sono in fortissimo sviluppo a livello internazionale: solo in Europa sono presenti circa 2 milioni di imprese sociali (il 10% di tutte le imprese) che offrono oltre 11 milioni di posti di lavoro. Uno sviluppo dell’economia sociale nel nostro Paese potrebbe rappresentare una risposta positiva, spontanea, e dal basso, all’attuale crisi economica, con ricadute positive, oltre che sul PIL, sulla stabilità e coesione sociale”. Ci sono incubatori, come il milanese Make a Cube, che agevolano la crescita di imprese attive nell’assistenza, nella sanità, nell’istruzione. Ci sono concorsi ad hoc. Due esempi: ” Fellowship for longer lives”, un premio del valore di 60mila euro per la migliore startup nel campo della longevità e dell’invecchiamento attivo, e ” Make a Change – Il più bel lavoro del mondo”, che mette in palio per il vincitore 40.000 euro, tra avviamento finanziario e 6 mesi di incubazione professionale e tutorship manageriale presso Make a Cube. Entrambe queste opportunità sono ancora accessibili, nell’edizione 2013-2014, a chi volesse candidarsi, anche se mancano ormai pochi giorni alla scadenza.
Il termine ultimo per partecipare alla fellowship – nata per iniziativa di Impact Hub Milano, Axa Italia e Swiss Re Foundation – è il 4 gennaio; c’è un po’ po’ di tempo, fino al 31 gennaio, per l’altro concorso. Dalle scorse edizioni di Make a Change sono nate realtà interessanti e tutt’ora operative, come La locanda dei buoni e dei cattivi della Fondazione Domus De Luna Onlus (un ristorante di qualità che forma e impiega giovani con storie di violenza familiare), Eye Assist (uno strumento a basso costo per far comunicare persone con grave disabilità motoria), ed EggPlant (una società che utilizza lo smaltimento delle acque di vegetazione e l’inquinamento generato dalle plastiche tradizionali per la realizzazione di prodotti eco-compatibili). Altre iniziative interessanti, che coniugano l’attenzione all’innovazione con quella per i servizi alla persona sono ad esempio Agevolando, un’associazione che aiuta i giovani che escono dalle comunità per minori a integrarsi nella società, oppure Assixto, una rete di franchising, con sede principale a Udine e filiali in tutto il Friuli e in Veneto, che offre assistenza a domicilio per le famiglie.
Ma in cosa si differenziano le imprese del sociale – oltre ovviamente che per le finalità – rispetto a una startup “normale”?
” Dal punto di vista della performance – spiega a La Stampa Davide Agazzi, responsabile di Make a Cube – non cambia molto, valutiamo le stesse variabili. Le imprese con finalità sociale sono più legate però al design del prodotto, si deve capire prima di tutto se esiste un bisogno che può essere soddisfatto in maniera più efficiente di quanto avvenga al momento, e se l’impresa può essere sostenibile “.
Un approccio un po’ diverso insomma, dal classico, “partiamo e vediamo quel che succede” tipico di molti imprenditori da garage. ” Inoltre – continua Agazzi – noi ci concentriamo molto sui processi e sulle dinamiche relazionali “. E poi, la differenza fondamentale, riguarda naturalmente la redistribuzione degli utili. Le cosiddette imprese sociali non possono, per legge, redistribuire gli utili fra i soci, cosa che frena, forse, velleità speculative, ma disincentiva anche l’ingresso di investitori, che vorrebbero ricavare comunque un ritorno – per quanto contenuto e minore di quello ottenibile in altri settori – dal loro sostegno all’azienda. ” Per questo – spiega Agazzi – assieme a Make a Change siamo in prima linea in una battaglia culturale per cambiare le normative, in modo da favorire la comparsa di un nuovo modello di impresa sociale che coniughi i lati positivi della gestione pubblica e di quella privata”. Nel frattempo alcune aziende, non necessariamente no-profit ma operanti comunque nel campo sociale, si stanno autoregolando decidendo, per statuto, di assegnare una quota minoritaria di profitti agli investitori
(fonte lastampa.it)